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(foto: Ayelt Van Veen/Unsplash)

Seppure con numeri assoluti ancora piccoli, anche nel nostro paese la variante delta del coronavirus sta iniziando a farsi sentire. Giorno dopo giorno, i bollettini quotidiani forniti dalla Protezione civile e dall’Istituto superiore di sanità registrano una ormai inconfutabile inversione di tendenza in termini di casi positivi e di tasso di positività, non ancora percettibile invece per quanto riguarda ricoveri ospedalieri, decessi e occupazione delle terapie intensive.

Anche se la pandemia ci ha insegnato fin troppo bene che è difficile e poco sensato fare previsioni sull’andamento delle curve, sulla base di ciò che sta accedendo in diversi altri paesi europei è ritenuto molto probabile che la variante delta – oggi riscontrata in un caso ogni tre – diventerà prevalente anche in Italia, probabilmente superando i due terzi dei nuovi casi entro fine agosto. E ancora, secondo le proiezioni meno ottimiste, già prima della fine di luglio si torneranno a registrare alcune migliaia di contagi al giorno pure nel nostro paese.

Naturalmente si tratta di una situazione di fronte alla quale non si può certo restare passivi, tanto che già in questi giorni si sta iniziando a discutere su come limitare la diffusione della variante (che è caratterizzata da una più alta contagiosità) prima che la circolazione del virus sfugga di mano e non si possa fare altro che procedere con nuove indesiderate restrizioni e chiusure. Ma quali azioni possono essere intraprese, nella pratica? Abbiamo raccolto qui alcune delle idee più chiacchierate.

Vaccinare è più importante che mai

Anche se sappiamo che nessun vaccino è in grado di proteggere al 100%, tantomeno dal contagio, i dati che si vanno accumulando in queste settimane anche in Italia sono eloquenti: la vaccinazione abbatte drasticamente la probabilità di sviluppare forme gravi del Covid-19, ossia quelle che comportano ospedalizzazioni o che portano al decesso. E questo vale in generale per tutte le varianti (al più con qualche percento di variazione), delta inclusa.

Basta pensare che a luglio, se si guarda alla fascia degli over 80, quel piccolo 8% composto dai non vaccinati e dalle persone che non hanno ancora completato la doppia somministrazione corrisponde al 35% dei casi registrati, al 59% dei ricoveri in ospedale, al 78% dell’occupazione delle terapie intensive e al 70% dei decessi. Confermando peraltro ancora una volta che il calo di efficacia dei vaccini imputabile alle varianti riguarda i contagi (la copertura media è comunque a oggi stimata all’80%) e non i casi gravi.

Per questo motivo la campagna vaccinale è diventata a maggior ragione una corsa contro il tempo: se si immaginava di avere i mesi di luglio, agosto e settembre per concludere il primo round di somministrazioni, l’arrivo della variante delta impone di stringere ulteriormente i tempi, perché l’inversione nelle curve dei contagi attesa per fine estate sta già avvenendo. Prioritaria è naturalmente la copertura della parte più fragile della popolazione, a partire dai quei due milioni e mezzo (circa) di over 60 ancora scoperti, senza scordare i 200mila operatori della scuola e altre categorie professionali strategiche. E includendo poi tutto il prosieguo dell’azione vaccinale, tra eventuali terze dosi, riformulazioni del vaccino e così via.

Ripensare i parametri, in tutti i sensi

Alla luce dei nuovi dati epidemiologici e delle nuove evidenze scientifiche, da più voci si è levata la richiesta di rimodulare parte dei criteri adottati fin qui, in alcuni casi rendendoli più permissivi e in altri operando un “giro di vite”. In quest’ultima categoria rientra anzitutto l’idea di modificare le regole per ottenere il green pass italiano: da un lato posticipare il rilascio a due settimane dopo la seconda dose anziché a due settimane dopo la prima (poiché con una sola dose la copertura è solo parziale), e dall’altro aumentare il numero di attività e luoghi per i quali il green pass è necessario. Non solo stadi, concerti, banchetti ed eventi, dunque, ma potenzialmente anche altre attività in cui tendono a crearsi assembramenti. Una delle ipotesi più radicali ventilate è quella del green pass per andare al ristorante, ma al momento la misura è ritenuta impraticabile dato che la platea dei non vaccinati è ancora di 24 milioni di persone, troppo ampia per essere gestibile.

Sul versante dell’allentamento delle misure, invece, una delle proposte in campo è quella di cambiare i criteri per il passaggio delle regioni da un colore all’altro. In particolare, visto l’effetto dei vaccini di contenere le forme gravi ben più efficacemente dei contagi in sé, una possibile direzione è quella di ridurre l’importanza del numero di casi registrati (a oggi la soglia è a 50 casi ogni 100mila abitanti per la zon gialla), aumentando di contro quella di ricoveri, ospedalizzazioni e decessi. Insomma, in questo modo una regione con molte persone vaccinate sarebbe favorita, poiché ci si aspetterebbe un minor numero di casi gravi rispetto ai casi complessivi registrati.

Allo stesso tempo, però, diversi media hanno riportato anche la proposta di introdurre un ulteriore vincolo: per potere rimanere in zona bianca, ciascuna regione dovrebbe continuare a effettuare un numero minimo di tamponi, pari a 150 a settimana ogni 100mila abitanti, se possibile di tipo molecolare. Non si è parlato invece di un abbandono dell’indice Rt, che resterebbe uno dei fattori chiave seppure con una minore importanza nella gerarchia dei parametri. E in parallelo ciò che si auspica è un miglioramento del tracciamento, in modo da identificare precocemente i focolai, specialmente se di variante delta.

Tutto ciò potrebbe, almeno in teoria, portare a un’ulteriore razionalizzazione delle regole, in modo da migliorare la convivenza con il virus e fare introdurre restrizioni solo dove e quando si rendono effettivamente necessarie e utili. Se invece le regole non dovessero essere modificate, già almeno quattro regioni (Abruzzo, Campania, Marche e Sicilia) parrebbero avere un trend tale da passare in zona gialla entro pochissime settimane, a stagione estiva ancora ampiamente in corso, sempre ammesso che le curve procedano senza ulteriori cambi di tendenza.

Il giusto mezzo delle mascherine e delle discoteche

Se dal punto di vista del contenimento del contagio non c’è dubbio che l’uso della mascherina sia una delle strategie chiave, la discussione resta aperta riguardo alle occasioni in cui si può prevedere di farne a meno. In questo caso sembrerebbero non essere però in previsione cambiamenti, almeno per i mesi estivi: niente obbligo all’aperto salvo assembramenti e obbligo più che mai confermato nei luoghi chiusi.

Ciò che però sembra essere di difficile applicazione, all’atto pratico, è l’uso razionale delle mascherine all’aperto. In molti casi la regola di indossare la mascherina quando ci si trova in una condizione di sovraffollamento viene ignorata. Accade nei luoghi della movida, è accaduto per i festeggiamenti dopo la vittoria agli Europei della nazionale e succede regolarmente nelle vie più affollate delle città. In questo caso, oltre a fare affidamento sul buon senso collettivo, la strategia che potrebbe essere adottata è quella dell’irrigidimento dei controlli, con forze dell’ordine posizionate nei luoghi a più alta probabilità di assembramento per verificare che l’obbligo di indossare la mascherina così come oggi in vigore sia davvero rispettato. E lo stesso dovrebbe valere anche per moltissime altre misure anti-contagio, dal distanziamento nei supermercati all’igiene delle mani, dal controllo della temperatura al rispetto della distanza minima quando ci si mette in fila, confidando che il rilassamento generale estivo non si trasformi in una totale perdita delle necessarie attenzioni.

Si tratta comunque di una situazione difficile da calibrare, come dimostra anche il caso delle discoteche. Per il momento ne è stata annunciata la riapertura, pur senza avere ancora fissato la data, ma l’aumento dei casi potrebbe fare cambiare di nuovo idea. Allo stesso tempo, però, il prolungarsi dei tempi sta facendo crescere il numero di discoteche “abusive” o “mascherate”, tanto che ci si sta ponendo il problema se sia meglio aprire ufficialmente in modo più regolamentato o se continuare a tenere chiuso favorendo il moltiplicarsi di realtà non a norma.

Viaggi all’estero con più attenzione

La variante delta è già in Italia da tempo e in ogni caso sarà impossibile anche in futuro prevenire l’arrivo e la diffusione di specifiche varianti. Tuttavia, non c’è dubbio che da quei paesi (o da quelle regioni) in cui la circolazione virale è più alta sia più probabile rientrare con il virus in corpo, così come è accaduto nella stagione estiva 2020.

Per questo motivo è in fase di valutazione una specifica misura di quarantena per chi rientra in Italia dai paesi dove la variante delta è più diffusa. Oltre al Regno Unito – per il quale la misura è già in vigore – la quarantena potrebbe essere prevista a partire da Spagna e Portogallo, e dovrebbe essere lunga 5 giorni. Una misura comunque insufficiente ad arginare la diffusione, ma che potrebbe consentire di arrivare a fine estate con una situazione complessiva ancora ben sotto controllo, così da poter consentire la ripresa delle attività (scolastiche, sportive e commerciali) nel modo più normale possibile.

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Prima di arrivare alle chiusure, molte altre azioni e strategie che possono essere messe in campo: non solo i vaccini, ma anche una rimodulazione di green pass, quarantene e tracciamento
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