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È un povero illuso chi credeva che con la definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, e dunque dal mercato unico e dall’unione doganale, il lungo e doloroso processo della Brexit si sarebbe interrotto. I fatti degli ultimi tempi, diversissimi fra loro eppure accomunati da un filo rosso che unisce e al contempo divide il continente dall’isola, stanno a dimostrarlo in modo lampante. Siamo nel pieno della Long Brexit e nessuno può dire se e quando finirà.

Prima sono stati i fermi dei cittadini europei con i documenti non in regola all’arrivo negli aeroporti e nelle stazioni britanniche, rinchiusi in strutture a tutti gli effetti detentive (come lo Yarl’s Wood Immigration Removal Centre del Bedfordshire), privati degli effetti personali come telefoni e passaporto nonché della possibilità di spiegare la propria situazione o di farsi “sponsorizzare” da una persona legalmente residente nel paese. L’incubo degli italiani (e non solo) alla frontiera è stato quasi il calcio d’inizio. E sempre di calcio si parla in queste ore, con il pressing concentrico della cancelleria tedesca e della presidenza del Consiglio italiana sulla finale dei campionati europei di calcio, in programma l’11 luglio a Wembley, Londra.

Mario Draghi e Angela Merkel – foto iPa

L’Uefa si muova con responsabilità” ha detto Angela Merkel. L’altro giorno Mario Draghi, rispondendo a una domanda su un possibile spostamento a Roma, aveva invece spiegato che non sarebbe una cattiva idea riprogrammare finale e semifinali degli europei “in un altro Paese dove i casi di Coronavirus non sono in aumento“. Oltremanica preoccupa infatti il nuovo aumento dei casi di infezione da Sars-CoV-2 legata alla variante Delta, con 9/10 mila contagi giornalieri ma a fronte di un enorme numero di tamponi quotidiani, non paragonabile rispetto a quelli che facciamo in Italia. Eppure aumentare la capienza dello storico impianto londinese, portandola a sfiorare i 60mila posti, mentre l’Europa decide nuove quarantene per chi arrivi dal Regno Unito lascia in effetti un po’ perplessi. Difficile comunque che la Uefa torni sui suoi passi, visto il pesante contributo di BoJo all’affondamento del progetto SuperLega, che vedeva in campo i più importanti club calcistici d’oltremanica.

Dietro questa mossa è inoltre impossibile non mettere in relazione tutte le altre: la rigidità sui cittadini europei ma anche le nuove minacce di Boris Johnson sull’accordo per l’Irlanda del Nord (costate perfino una reprimenda ufficiale da parte di Joe Biden prima del G7 in Cornovaglia di 10 giorni fa) così come le schermaglie sulla pesca con la Francia. Senza dimenticare un aspetto che appare forse più tecnico, legato ai complessi meccanismi che sovrintendono l’offerta di contenuti audiovisivi nei paesi dell’Unione Europea, ma che di nuovo promette di essere solo una delle tante frecce all’arco della Commissione per colpire una delle più fiorenti industrie anglosassoni.

Secondo un rapporto riservato diffuso tuttavia dal Guardian alcuni giorni fa, gli uffici dell’Ue che si occupano di questi argomenti definiscono “sproporzionata” la quota di contenuti televisivi e cinematografici “made in UK” sulle emittenti e sulle piattaforme in streaming e on demand disponibili nei mercati dei 27 paesi membri. The Crown e Downton Abbey sono solo due fra i titoli più noti ma oggettivamente le produzioni britanniche (da Peaky Blinders a Peppa Pig, da Black Mirror a Luther fino ad After Life sono per limitarci a qualche prodotto del catalogo Netflix) sono più di quante si pensi. L’obiettivo Ue potrebbe essere quello di ricalibrare drasticamente questa presenza, facendo osservare in modo stringente i limiti delle direttive vigenti sul tema, che prevedono almeno il 30% di titoli europei sulle piattaforme in streaming e on demand come Netflix e Amazon. Che oltretutto devono anche contribuire allo sviluppo delle produzioni continentali, attraverso investimenti diretto o contributi nei fondi delle varie nazioni. Mentre le emittenti del digitale terrestre devono riservare la maggior parte del tempo di trasmissione alle opere europee, nonché, alternativamente, 10% del proprio tempo di trasmissione o 10% del proprio budget (quote di investimento) a opere europee di produttori indipendenti.

L’Italia era di fatto già intervenuta, prima del 2018, con la legge Franceschini. Altri paesi, come la Francia, sfoggiano regole ancora più dure che rischiano di andare a incidere in quei 490 milioni di sterline di licenze dei diritti internazionali ai canali europei e alle piattaforme fruttati nel solo biennio 2019-2020 ai gruppi britannici. Il secondo mercato del mondo dopo quello statunitense. Come prevedibile, con la finalizzazione della Brexit i rapporti fra Ue e Regno Unito sono entrati in una fase inevitabilmente più vivace – ricordano quelli con molti paesi extraeuropei, capricci dei presidenti inclusi – e però più scontata e banale: dal calcio alla tv fino a visti e ingressi, nulla sarà come prima. Ma non si capisce ancora come potrà essere dopo la stagione della Long Brexit.

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Mentre Draghi e Merkel propongono un trasferimento della finale degli Europei, la Ue vuole ricalibrare la quota di contenuti televisivi e cinematografici, giudicando sproporzionata quella “made in Uk”
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