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Nessuna scoperta scientifica ad oggi si rivela ai ricercatori già pronta per un impiego pratico immediato. La forza cruciale che trasforma un lavoro accademico in vera innovazione è il technology transfer, o trasferimento tecnologico: l’azione di aziende ed enti specializzati che isola le novità più promettenti in ambito scientifico per lavorare sul loro potenziale e trasformarlo in progresso e sviluppo.

A cosa serve il trasferimento tecnologico

Oggi il technology transfer è diventato un processo cruciale per un motivo specifico: il volume delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche generato da istituti di ricerca ed altri enti pubblici e privati ormai è eccessivo. Servono strategie, fondi e personale qualificato in grado di individuare le potenziali innovazioni e trasformarle in prodotti e servizi che generino un adeguato ritorno economico per chi vi investe — in modo da continuare ad alimentare il circolo virtuoso. Senza trasferimento tecnologico, centinaia di scoperte scientifiche rimarrebbero semplici lavori accademici, infruttuosi per il progresso.

I protagonisti

Il meccanismo è mosso da diversi ingranaggi. Appositi Uffici per il trasferimento tecnologico hanno il compito di intercettare e mettere in evidenza tutto il lavoro realizzato all’interno di università e centri di ricerca che possa avere un utile sbocco sul mercato; le aziende e startup interessate a prodotti o processi produttivi innovativi sono in contatto con entrambe le tipologie di realtà; gli investitori infine tengono le antenne puntate sull’intero ecosistema per offrire sostegno economico ai progetti più promettenti, come ad esempio gli spin-off nati da progetti universitari. A facilitare l’interazione tra tutti questi soggetti c’è spesso lo Stato, che interviene con fondi e strategie mirati.

La situazione in Italia

Da noi un modello virtuoso si sta consolidando solo di recente. La ricerca italiana dà parecchi frutti ma d’altra parte il rapporto Netval del 2018 riportava ancora numeri per uffici per il TT, quantità di brevetti concessi e valore espresso per singolo brevetto non all’altezza di quelli degli altri Paesi europei. È proprio in questo senso che nel 2020 è nata la Fondazione Enea Tech: un ente vigilato dal MiSE che disporrà del primo fondo dedicato esclusivamente al trasferimento tecnologico. Il plafond a disposizione della fondazione per il momento è già di 500 milioni di euro, ma tra gli obbiettivi c’è più a lungo termine quello di consentire all’ecosistema dell’innovazione nazionale di avere un riferimento stabile, in dialogo con strumenti europei come il recovery fund di Next Generation EU.

Il nuovo soggetto nel frattempo ha già stretto accordi di collaborazione con il CNR, e le sue prossime attività andranno a sostegno di tre dei soggetti più attivi nell’ambito di ricerca e sviluppo nel Paese: la Fondazione Bruno Kessler, l’Istituto Italiano di Tecnologia e lo Human Technopole. Lo scopo è promuovere iniziative in materia di ricerca e sviluppo, investire e partecipare in PMI innovative, spin-off universitari e startup sul territorio nazionale, per “sostenere
processi di trasferimento tecnologico e contribuire alla crescita e alla competitività del Paese”. In poche parole: favorire le sinergie tra tutti gli attori coinvolti nel TT per trasformare quest’ultimo in un vero e proprio motore di crescita e sviluppo.

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Il “technology transfer” è un processo indispensabile per trasformare la forza accademica in lavoro produttivo e le idee in sviluppo e progresso. Ecco a che punto siamo in Italia
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