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(foto: Luke Chesser/Unsplash)

Cosa si può fare, nel concreto, per sfruttare al meglio le potenzialità della digital health e dei dati raccolti dal mondo reale? È questa la domanda che è stata al centro di TheBigDate, l’evento online di approfondimento promosso da Pfizer Italia e dedicato all’evoluzione della pratica clinica attraverso le potenzialità delle tecnologie d’avanguardia. Da cui, però, è emerso anzitutto che disporre delle più avanzate soluzioni hardware e software è necessario ma non sufficiente: dietro il cambio di paradigma della medicina, infatti, ci sono questioni culturali, di metodo, normative, etiche e – naturalmente – scientifiche.

“Una prospettiva interessante e contemporanea è il dotare le macchine della capacità di percepire il mondo, ha esordito Fabio Moioli, direttore Consulting Services di Microsoft Italia. “Una capacità percettiva che trova applicazione nell’ambito della sicurezza, ma con esempi concreti e già operativi anche per le persone non vedenti, che hanno bisogno di essere coinvolte a livello sociale e possono farlo grazie a speciali occhiali che trasformano l’informazione visiva in parole da ascoltare.

Durante TheBigDate si è raccontato anche di come la stessa tecnologia, sviluppata nel Regno Unito, sia utilizzata per esempio in oncologia per il riconoscimento delle immagini, impiegando la grande capacità dell’intelligenza artificiale di individuare correlazioni e di fare previsioni sulla base delle statistiche. Con l’idea di una complementarità umano-macchina: “Se faccio vedere un esame sia a un algoritmo sia a un medico, il risultato è migliore che se lo vedesse solo il medico o solo l’algoritmo, poiché essere umano e macchina pensano in modo diverso e commettono errori differenti, ha proseguito Moioli.

E guardando un po’ più in là, si è arrivati fino alle prospettive più avveniristiche: da un lato il quantum computing applicato ai big data sanitari, dall’altro l’utilizzo del dna sintetico come soluzione per l’archiviazione dei dati, fino a includere l’evoluzione del ruolo del medico, con la già citata complementarità tra persone e intelligenza artificiale che consente al personale sanitario di avere più tempo da dedicare al rapporto empatico con i pazienti.

La sfida, ribadita anche da Giovanni Corrao dell’università di Milano-Bicocca, pare essere proprio quella di armonizzare la scienza e la tecnologia, la pratica clinica con l’odierna ampia disponibilità di dati. “Oggi abbiamo circa 7mila farmaci innovativi in via di sviluppo”, ha spiegato, “e la normale lunghezza del processo di approvazione di una decina d’anni è abbondantemente ridimensionata, con farmaci registrati dopo piccoli studi di fase 1 e 2, e saltando la fase 3. L’implicazione di tutto questo è che l’importanza dei dati della pratica clinica, ossia riferiti a quando il farmaco è in commercio, è sempre più grande”.

Non si tratta comunque di trovare alternative alla evidence based medicine fondata sugli studi scientifici randomizzati, ma di completare questo modello con l’approccio della medicina di precisione, che va oltre la valutazione della singola terapia e include anche un occhio alle spese, puntando verso il paradigma della cosiddetta value based medicine. “Non si tratta più di valutare se un singolo farmaco o trattamento sia efficace, ma se l’intero percorso terapeutico sia o meno adatto al benessere del paziente”, ha aggiunto Corrao. Per farlo, la risposta sono i dati del mondo reale, quelli che generiamo lasciando impronte nel sistema sanitario, da gestire attraverso enormi database ben costruiti.

Dati che, più di recente, iniziano ad arrivare tramite appositi dispositivi high tech. Da un sondaggio estemporaneo condotto presso i medici partecipanti, per esempio, è emerso che in un terzo dei casi si approfitta di app per la salute, ma anche degli smartwatch in un caso su 7, di sensoristica IoT in modo equivalente, e pure di braccialetti smart, e così via. Anche se, come ha concluso Corrao, “la cosa importante è che la scienza sia buona scienza, che la clinica sia buona clinica, mentre gli strumenti hanno un’importanza relativa perché cambiano di continuo”.

Assodato che l’intelligenza artificiale permette di raccogliere, analizzare e processare tutta una serie di informazioni che solitamente non entravano nei database, tra immagini, testi scritti e molto altro, uno dei punti cardine oggi è nella strutturazione e caratterizzazione del dato stesso. “Lo sforzo è rendere i dati adeguati al paradigma Fair, acronimo di Findable, Accessible, Interoperable e Reusable”, ha spiegato Riccardo Bellazzi dell’università di Pavia. “Per utilizzare bene l’intelligenza artificiale abbiamo bisogno di capire che cosa inseriamo nei nostri dati, e possiamo farlo solo se modellizziamo il processo di cura nel modo corretto, pensando a quali algoritmi utilizzare e a quale tipo di evidenza ricavarne”.

In altri termini, dato che l’intelligenza artificiale poggia su grandi raccolte dati, è il processo stesso di raccolta e la cultura del dato a fare la differenza, visto che oggi può includere una serie di informazioni anche non strutturate. “L’obiettivo finale di tutto il processo è costruire un sistema che apprende dai nostri dati, in modo da estrarre conoscenza e poi passare dalla conoscenza all’azione. Ed è questo che va tenuto in mente quando si parla di Fairness, ha aggiunto.

Oltre che come grandi fonti di dati, gli strumenti di digital health hanno anche grande potenzialità come opportunità di salute, perché promuovono stili di vita salutari e favoriscono, attraverso i dati che raccolgono, la ricerca medica. “Molti dispositivi possono raccogliere in maniera passiva i nostri dati fisiologici, e la sfida è metterli in relazione con gli esiti clinici dei pazienti”, ha raccontato Eugenio Santoro, direttore del Laboratorio di informatica medica presso l’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.

(foto: Pixabay)

Gli ambiti di applicazione già concreti sono numerosissimi: dagli studi che misurano la qualità del sonno e la correlazione con la sua durata fino a quelli che valutano la mobilità delle articolazioni, confrontando i dati raccolti dai dispositivi di monitoraggio con ciò che i pazienti stessi dichiarano del proprio stato di salute. “Gli studi di real world data eseguiti tramite strumenti di digital health arruolano i pazienti in tempi molto più brevi, possono godere di dati raccolti da diverse fonti e con regolarità, migliorando l’accuratezza degli studi e riducendone i costi, ha aggiunto. “E negli studi futuri la randomizzazione avverrà sempre più utilizzando sistemi di social media, con farmaci spediti a casa, dati basati sugli outcome riferiti dai pazienti e analizzati anche tramite sistemi di intelligenza artificiale”.

Una delle criticità ribadite è però che, se per fare le analisi servono i dati, in Italia questi arrivano da 21 sistemi diversi (tra regioni e province autonome), che si parlano poco tra di loro e non sono interoperabili né facilmente accessibili. “È una situazione che è emersa con forza anche con l’emergenza sanitaria”, ha concluso Santoro, “e serve anzitutto ridisegnare il nostro fascicolo sanitario elettronico in chiave clinica”.

“Ci sono due percorsi che vanno in parallelo”, ha aggiunto Daniela Scaramuccia di Ibm, “da una parte dobbiamo migliorare il modo in cui raccogliamo i dati, e ci aspettiamo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza dia una spinta forte in questo senso, ma in parallelo non possiamo buttare via l’enorme mole di dati che già possediamo e che sono strutturati a silos”. Il grande vantaggio che abbiamo oggi, come è emerso, è che l’intelligenza artificiale consente di elaborare questi dati, bypassando quella fase di lavoro manuale che li rendeva inutilizzabili in passato.

In senso più ampio, però, quando si tratta di evoluzione della pratica clinica e real world data non vanno scordate le questioni di equilibrio, per esempio tra intelligenza artificiale, etica e normative. “Abbiamo bisogno di algoritmi che siano privi di bias e che siano spiegabili e comprensibili, ma soprattutto servono accordo e sintonia tra stakeholder ed enti regolatori, e che ci si continui a occuparsi di questi temi”, ha concluso Scaramuccia. Badando, infine, a un ulteriore fondamentale punto di equilibrio: quello tra la possibilità di fare ricerca e i diritti individuali, tra utilizzabilità dei dati per permettere gli avanzamenti scientifici e la riservatezza e la privacy delle persone.

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Se ne è parlato a TheBigDate insieme ai massimi esperti italiani di salute digitale e applicazioni high tech per la ricerca scientifica medica: ecco come cambiano il modo di fare ricerca e la pratica clinica tra dispositivi wearable, big data sanitari, frontiere applicative e questioni etiche
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