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Foto: Simone Cosimi

Mancano i lavoratori, come spiegano diverse cronache basate sui numeri di alcune indagini di società specializzate nel settore, o manca il lavoro buono? Dovremmo muovere da questa domanda, non da altro, quando leggiamo notizie come quelle che ci spiegano che le aziende hanno difficoltà a trovare le persone: secondo Unioncamere, a giugno si apriranno 560mila nuovi contratti, più che prima delll’annus horribilis 2020. E alla fine di agosto si arriverà a 1,3 milioni posti disponibili, con un saldo positivo del 7% secondo Manpower. Eppure l’offerta di lavoro (sì, sono le imprese che lo domandano e i lavoratori che lo offrono, spesso termini e concetti si confondono) sembra insufficiente. Come mai?

Bisogna ovviamente capire di che genere di dibattito si tratti. Se il cosiddetto “talent shortage”, cioè la mancanza di figure con una formazione medio-elevata e competenze specifiche magari in ambito Stem, è una realtà da molto tempo (in Italia siamo all’85% di discrepanza fra figure ricercate e quelle individuate), il dibattito di questi giorni sta come sempre precipitando nell’ipersemplificazione qualunquistica. Coinvolgendo, senza troppa distinzione, ogni genere di impiego giustificandolo fondamentalmente col reddito di cittadinanza. Anche chi scrive, raccogliendo testimonianze dirette ad esempio da ristoratori, ha incassato questa versione preponderante: le persone non accettano proposte di lavoro, per esempio in questa fase rispetto a incarichi stagionali (bar, ristoranti, stabilimenti, hotel e così via) perché temono di perdere il reddito, o la Naspi o la cassa integrazione e altri sussidi e “non hanno voglia di lavorare.

La questione torna a dividere un paese che, su questo aspetto, non ha mai fatto pace con sé stesso: da una parte la scuola di chi dice che devi lavorare comunque, senza badare troppo alle condizioni, e che se rifiuti sei un parassita dello Stato. Dall’altra chi, invece, chiede giustamente che diritti, garanzie e compensi siano rispettati e dignitosi e che si possa e anzi si debbano rifiutare i lavori che non onorano il perimetro di quella dignità. I primi controreplicano che è spesso proprio chi prende i sussidi che chiede magari di lavorare in nero, per non prenderli e arrotondare.

Questa cornice generale si declina oggi, con un milione di disoccupati in più dopo l’anno pandemico e un mercato inevitabilmente distorto da sussidi e blocco dei licenziamenti che si interroga su cosa potrà accadere nei prossimi mesi, in un dipinto sconfortante sulla rapidità di recupero dei posti di lavoro. E in una narrazione a tratti imbarazzante che, di nuovo come in molti altri ambiti, mette un pezzo di paese contro l’altro fra chi, magari, ha un posto fisso intoccabile e si permette di criticare chi rifiuti 500 euro al mese in nero in un bar.

Noi ci troviamo davanti a moltissimi lavoratori che, pur pur di non perdere Naspi, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, ci chiedono di essere pagati in nero – spiega a Repubblica Matteo Musacci, vicepresidente Fipe – Se esiste così tanto nero nel nostro settore bisogna farsi due domande, io non credo che gli imprenditori abbiano piacere di correre questo tipo di rischi. Inoltre, anche con i contratti regolari, ci troviamo di fronte a un mestiere che ha stipendi non adeguati all’impegno richiesto, anche a causa del costo del lavoro eccessivo”. Si intravede dunque qualche elemento in più per inquadrare meglio la questione: il lavoro è duro e spesso mal pagato, se non in nero di base dunque privo di tutele e contributi, senza garanzie e – come spesso capita in Italia – elargito e non offerto. Somiglia insomma di più allo sfruttamento. E che le persone inizino a mandare al diavolo lo sfruttamento, giustamente tenendosi in tasca eventuali sussidi di cui godono, è un bene: sta in realtà allo Stato legare l’erogazione di quei sussidi alle politiche attive del lavoro. Che invece nel nostro paese sono ferme dopo l’epoca d’oro del Re Mida americano dell’Anpals, Mimmo Parisi: l’ente è ora commissariato, non poteva che finire così, e fra i compiti che lo attendono c’è anche questo. Dare un senso a quell’enorme spot dei navigator e se possibile riprogettare politiche attive che, nel caso, riescano a spezzare una catena forse comprensibile ma ovviamente insostenibile per il paese. Di fronte a una scelta fra sussidio e lavoro di pessima qualità, che scelta faremmo?

Salendo con le competenze il discorso ovviamente cambia, ma poi non troppo. Chi è più formato va all’estero, dove ottiene stipendi più elevati, benefit più significativi e dove magari la giovane età non è considerata un ostacolo ma, anzi, un valore aggiunto. Stando ai dati raccolti dal consorzio interuniversitario Almalaurea, circa la metà dei laureati italiani si trasferirebbe infatti all’estero per lavoro: Regno Unito, Svizzera, Germania, Francia e Spagna le mete preferite. Un terzo cambierebbe anche continente. A cinque anni dalla fine del ciclo di studi chi lavora all’estero percepisce in media uno stipendio di quasi 800 euro in più rispetto a chi lavora in Italia: 2.266 euro contro 1.407. Nel mondo Stem questa forchetta è ancora più elevata. Di che cosa stiamo parlando? Chi è che deve modificare le proprie condizioni e le proprie pretese: chi domanda lavoro o chi lo offre?

Tornando al dibattito che investe soprattutto turismo e stagionali, i temi sono anche altri. Incrociano elementi pratici e psicologici: da una parte, dopo 15 mesi di blocco pressoché totale, le persone si sono messe a fare altro. Magari hanno trovato il coraggio di investire su sé stesse, magari hanno cambiato lavoro, magari percepiscono sostegni che le offerte di queste settimane non scalfiscono di un centimetro perché sono offerte (volenti o nolenti) pessime, che secondo gli addetti ai lavori si muovono spesso su cifre indecenti, da poche centinaia di euro, full-time travestiti da part-time e ovviamente un elemento legato alla sicurezza che molte vicende, basti pensare al recente caso del chitarrista Roberto Angelini, mettono in luce. Perché non si dovrebbe voler lavorare alle giuste condizioni? Le aziende che mettono sul piatto le condizioni adeguate grossi problemi non ne hanno: spesso conviene piangere lacrime anticipate che farsi un’analisi di coscienza.

C’è poi un elemento probabilmente legato proprio alla pandemia: un evento così travolgente, che ha investito le nostre vite fino a chiuderci il futuro, non può non aver risvegliato le coscienze di molti. E aver palesato il rischio che, come dal 2008 in poi la “crisi” era la scusa buona per ogni taglio, riduzione di stipendio, aumento di orari, abuso sul posto di lavoro, ora anche la “pandemia” possa finire per replicare quella dinamica da qui a un decennio. Con domande di lavoro di ogni genere da prendere a scatola chiusa, perché in fondo nel pieno di una pandemia cosa vuoi pretendere.

Cominciamo a offrire lavori buoni, in regola, e con paghe adeguate e risolveremo anche un pezzo di questo problema. Anche oltre il reddito di cittadinanza che, è vero, così com’è – lasciato a metà – fa più male che bene ed è un fallimento assoluto. Anche oltre le narrazioni lunari che ci tocca ascoltare su questo fenomeno. Ci stiamo accorgendo che sempre di più chi si sente sfruttato, nonostante tutto, alla fine manda al diavolo e rinuncia: davvero è tutta colpa dei giovani che non vogliono lavorare?

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Aziende e negozi denunciano la fatica a trovare persone, per la stagione e non solo: ma il reddito di cittadinanza è solo un pezzo del problema. E ovviamente non il più significativo
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