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Quando Monster Hunter: World, il videogame, ha venduto 15 milioni di copie in un anno e mezzo, tutta Hollywood si è mobilitato. Chiunque voleva subito i diritti per un adattamento. A possederli non era la giapponese Capcom, che ha creato il gioco e che per decenni l’ha distribuito con un successo solo nipponico. Ad averli era qualcuno che stava già lì, nel mondo del cinema: Paul W. S. Anderson, che li aveva comprati prima di tutti, almeno 12 anni fa, quando a Tokyo si era innamorato perdutamente di Monster Hunter. Quella lungimiranza gli ha fruttato il rispetto dei giapponesi.

Lui, del resto, è forse il nome più pesante se si parla di adattamenti cinematografici dei videogiochi. Negli anni ’90, quando tutti quanti fallivano (dal terribile Super Mario con Bob Hoskins all’inspiegabile Street Fighter con Van Damme), è riuscito a essere il primo a trovare il successo con un film tratto da un videogame: Mortal Kombat. Poi, avrebbe replicato nel 2002 creando il primo franchise cinematografico da un franchise videoludico con Resident: Evil. E in virtù di quest’esperienza ha capito subito che la forza di Monster Hunter erano gli scenari, i mondi, le mappe; quindi, anche il film, se voleva vincere, doveva puntare su quello. Niente green screen o effetti, si sarebbe girato nel mezzo del nulla per davvero.

Sembra semplice a dirsi, ma lo è molto meno a farsi. Significa prendere una troupe cinematografica di 350 persone e spostarla nel mezzo del niente, così in là nel deserto che nemmeno i droni vedono niente all’orizzonte. Trecento chilometri dal primo villaggio. Occorre creare un accampamento, portare l’acqua e l’elettricità dove non c’è ed essere attrezzati per le terribili escursioni termiche del deserto, dal caldissimo al freddissimo. Ma Paul W. S. Anderson era così convinto che non pensava ad altro, anche prima di iniziare le riprese quando stava finendo il film precedente, Resident Evil: The Final Chapter, in cui la protagonista (che è sempre Milla Jovovich, sua moglie) combatte un mini mostro perché, parole sue, “non è facile filmarne uno alto 15 metri, quindi volevo allenarmi con qualcosa di più piccolo e cominciare a capire come poter fare. Di solito i mostri nei film sono delle persone con una tutina e tutti gli attori fanno finta, ma se è alto 15 metri non si può fare”.

Questa, però, non è una storia a lieto fine. La passione, lo sforzo, la tigna per fare un film teso e, come è obbligatorio per le produzioni così maestose, pensato per incassare non solo in America ma in tutto il mondo, con Tony Jaa (eccezionale eroe di film di arti marziali tailandesi) come comprimario e comparse del calibro di Jin tha MC (rapper e celebrità cinese), con fondi di Tencent (compagnia cinese) a collaborare con quelli giapponesi e americani, e poi succede l’imprevisto. All’uscita cinese il film va mediamente, è terzo al box office nella prima settimana, ma il pubblico si accorge di un problema con un dialogo in cui i soldati americani prendono in giro scherzosamente i cinese (che poi sarebbe Jin tha MC) facendo riferimento alle sue ginocchia (un gioco di parole con “chinese” e “chi-knees”). Non lo sapeva nessuno, però c’è una terribile tradizione di canzoncine canzonatorie contro i cinesi a partire dalle ginocchia. Scoppia l’incidente diplomatico, solo acuito da una goffa traduzione cinese nei sottotitoli che parla dell’esigenza degli uomini cinesi di inginocchiarsi. È un disastro a catena.

Il film viene prima ritirato per un giorno, il tempo di cancellare quella battuta, e poi rimesso in sala, ma forse è quasi peggio. Sui social network cinesi ci sono solo insulti; non andare a vedere il film diventa un gesto patriottico, l’averlo messo di nuovo in sala senza la battuta un affronto ai cinesi. E questo nonostante tra i produttori ci sia Tencent (che ben presto prende le distanze da tutto, come anche la Capcom). Nella vulgata Monster Hunter è un film imperialista che reitera stereotipi cinesi e come sempre vuole affermare la superiorità statunitense. Alle sale viene “indicato” di non proiettare il film. È un’ecatombe, nonostante le vigorose scuse di tutti e la spiegazione che nessuno era a conoscenza di queste prese in giro. Non era stato fatto apposta.

Devastato”, “Mortificato”, “il film in realtà è sullo stare uniti durante le avversità e superare le reciproche differenze”, nessuna scusa ufficiale serve. Monster Hunter fallendo in Cina e venendo penalizzato dal Covid nell’uscita americana, avvenuta questo dicembre, è stato un sonoro fallimento. Sessanta milioni di budget, per un incasso di 15 in patria che con il resto del mondo diventano 40 (ma i soldi del biglietto vanno per metà alle sale, quindi l’introito per la produzione va dimezzato). Non avrà un sequel e dimostra con forza un problema che in molti stanno intuendo: che progettare film anche per il mercato cinese è un terno al lotto, troppe le insidie e i possibili problemi imprevedibili.

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È appena uscito nelle sale italiane, ma è stato massacrato per un’incomprensione con Pechino. Alla regia c’è Paul W. S. Anderson, il nome più importante quando si parla di adattamenti cinematografici dei videogiochi
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