0 00 6 minuti 3 anni 12

Photo by Drew Beamer on Unsplash

L’innovazione tecnologia rappresenta senza alcun dubbio una risorsa. Ma la mancata sincronia tra progresso tecnologico ed evoluzione sociale può portare a grandi pericoli e distorsioni. Il maestro Franco Battiato sintetizzava lucidamente questo scenario già nel 1982 con l’incipit di New Frontiers: L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero. Era da poco iniziata la terza rivoluzione industriale, quella dell’era informatica. Quarantaquattro anni dopo, nel 2014, meno della metà degli anni impiegati dai precedenti cambi di paradigma, ci siamo ritrovati già immersi nella quarta fase. Quella caratterizzata dalla compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico. Una somma dei progressi in intelligenza artificiale, robotica, internet delle cose, stampa 3D, ingegneria genetica e computer quantistici.

La tassa dello skill mismatch

Le generazioni che hanno dovuto adattarsi così repentinamente alla nuova rivoluzione industriale, sono passate dalla macchina per scrivere al Quantum, passando per algoritmi cognitivi e 5G. Alcuni hanno rapidamente allineato o ripensato le proprie competenze professionali, molti le hanno adattate parzialmente e troppi sono rimasti indietro. Ritrovarci con un cavo elettrico ad alta tensione tra le mani, può farci alimentare un’intera azienda o ucciderci. Dipende dalla preparazione che abbiamo, dalla nostra capacità di pensiero (problem solving). In Italia, però, dieci milioni di lavoratori non hanno le competenze giuste. Secondo l’FSA Maturity Index, il nostro Paese registra uno skill mismatch pari a oltre un terzo (38,2%) della forza lavoro. In termini economici, calcolando i mancati introiti, potrebbe tradursi in una “tassa” del 10% sul Pil. Più aumenta lo skill mismatch, infatti, peggiore diventa la prestazione di un Paese. La pandemia ha aggravato questo fenomeno, specie per l’introduzione forzata di forme di lavoro nuove, ma attese da tempo come quello da remoto, accelerando il processo sempre più necessario di digitalizzazione e automazione. Il mondo del lavoro cambia a velocità vertiginosa, concordano gli analisti, e la formazione fatica a tenere il passo.

La piaga dei Neet

I “Not (engaged) in Education, Employment or Training” – giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione – sono aumentatati passando dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020. Lo si legge nelle statistiche Eurostat appena aggiornate secondo le quali siamo i peggiori d’Europa con quasi 10 punti oltre la media Ue (13,7%). Si tratta di 2,1 milioni di giovani, in aumento di 97mila unità sul 2019, con un dato ancor peggiore per le donne: 25,4%. Tenendo conto delle spese per l’istruzione, del mancato versamento dei contributi e della spesa sociale, il danno economico prodotto da questo fenomeno in Italia ammonterebbe a circa 6 miliardi ogni anno. È il sintomo di un’incertezza diffusa tra le nuove generazioni che non riescono a comprendere il presente, tantomeno a prevedere il futuro. Un futuro in cui diventa difficile immaginare il proprio ruolo. E allora, tanto vale arrendersi e restare alla finestra, in attesa di capire, indottrinati dai social mossi da algoritmi che spesso alimentano fake news.

Spendiamo ancora troppo poco per formare

Aggiungiamo il dato sulla spesa per l’istruzione, solo il 4% del PIL, l’aumento esponenziale della popolazione anziana (siamo il Paese più vecchio d’Europa) e il declino demografico, 66 nati ogni 100 deceduti. Ecco la tempesta perfetta. O il circolo vizioso che impedisce, e continuerà ad impedire, che evoluzione sociale ed evoluzione di pensiero viaggino di pari passo. Servono più investimenti in formazione, sia pubblica che privata, politiche di welfare per agevolare chi ha o vuole avere figli, strumenti di inclusione per gli ultra 65enni. Osservato da questa prospettiva, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è davvero un’occasione imperdibile.

L’innovazione tecnologica e la transizione ecologica, come tracciato anche dal Next Generation EU, sono e saranno i principali vettori di cambiamento. Su di essi occorre puntare. Facendo squadra, pubblico e privati. In ballo non c’è solo una vera crescita sostenibile, sociale ed economica, ma la stessa sopravvivenza degli ideali che hanno ispirato l’europeismo. Non c’è tempo da perdere. Ve li ricordate gli striscioni che esponevamo sui balconi durante il lockdown? Andrà tutto bene solo se saremo noi tutti a volerlo.

The post L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero appeared first on Wired.

Senza un salto evolutivo della formazione, non saremo in grado di cogliere tutte le potenzialità di cloud ibrido, intelligenza artificiale e quantum computing. Anzi, rischiamo di farci del male perché troppo impreparati al cambiamento già in atto. Skill mismatch e Neet sono un freno allo sviluppo
The post L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero appeared first on Wired.

Wired (Read More)

Dicci la tua, scrivi il tuo commento: