
(foto: Daniela Holzer/Unsplash)
Tarare con precisione per quali attività debba essere necessario possedere il green pass e per quali invece possa restare superfluo non è semplice. A maggior ragione se poi occorre trovare una formulazione normativa che permetta di tenere conto di tutte le possibili occasioni di contagio da contenere. Tuttavia, nella sua versione 1.0, il certificato verde italiano mostra un buon numero di storture e contraddizioni, alcune delle quali emerse già prima della sua effettiva entrata in vigore e altre che si stanno palesando giorno dopo giorno. Un tema molto caldo soprattutto in vista delle revisioni alla normativa che potrebbero entrare in vigore nelle prossime settimane, probabilmente da settembre.
Trovata una quadratura – con qualche stortura – sulla questione di chi debba controllare i green pass e chi i documenti di identità che ne attestano l’autenticità, il punto più dolente sembra ora essere proprio la distinzione tra le attività che richiedono la certificazione e quelle in cui non è necessaria. E anche se in molti casi è palese che le regole siano state messe a punto trovando un compromesso tra fondamento scientifico, logica e applicazione pratica dei controlli, di fatto il risultato è che attività a più alto rischio di contagio sono libere da vincoli mentre altre con ben meno contatti stretti restano rigorosamente sottoposte al pass.
Positivi e autorizzati
Prima di fare una carrellata di esempi specifici, c’è un tema più generale sul funzionamento tecnico-informatico del green pass che merita una nota a sé. Se una persona è malata di Covid-19 con tanto di tampone positivo, ma ha già ricevuto la certificazione verde, questa continua a essere valida e funzionante. Il motivo, che qui su Wired abbiamo raccontato in un approfondimento, è che per (dichiarate) ragioni di privacy il sistema non consente di sospendere temporaneamente la validità del green pass, e dunque il qr code resta riconosciuto come autorizzato anche per chi rientra tra gli attualmente positivi.
Tecnicismi a parte, ciò significa che il green pass garantisce per esempio di condividere la saletta interna di un ristorante con persone che siano vaccinate, guarite di recente dal Covid-19 oppure risultate negative a un tampone nelle 48 ore precedenti, ma non dà affatto certezze sul fatto che i commensali siano effettivamente negativi al virus in quel momento. Anzi, potrebbe potenzialmente esserci qualcuno consapevole della propria positività.
Su questo al momento ci si affida al buon senso e alla correttezza delle persone, ossia che chi è infetto o in quarantena non abusi del proprio green pass nonostante questo – a livello informatico – continui a essere valido. Il buon senso e la correttezza delle persone sono anche i principi su cui si basa il fatto che nei locali si controlli il pass ma non il documento di identità, con la differenza che in quest’ultimo caso chi di dovere può accorgersi del problema da un semplice controllo dei documenti, mentre per chi dovesse usare un green pass autentico durante la propria positività sarebbe necessario un controllo incrociato con le banche dati sanitarie per individuare il problema.
Tutti al bancone
Uno dei controsensi più palesi e sotto gli occhi di tutti nell’uso del green pass è la distinzione tra avventori di ristoranti e soprattutto bar che usufruiscono dei tavoli interni e quelli che si appoggiano al bancone. Come noto, nel primo caso occorre esibire la certificazione, nel secondo no. Anche tralasciando il fatto che entrambe le categorie di avventori molto spesso condividono uno stesso spazio interno, magari a pochissima distanza gli uni dagli altri, la contraddizione principale è che all’atto pratico le persone al bancone non di rado sono ben più assembrate di quelle ai tavoli.
Con il paradosso che da un lato ci sono i clienti muniti di green pass ordinatamente seduti in tavoli ben distanziati e che si tolgono la mascherina solo dopo aver preso posto e a pochi passi – davanti al bancone – tutto sembra procedere esattamente come nel pre-pandemia, con una clientela selezionata di persone che consumano senza mascherina e (a seconda dell’afflusso del momento) tra loro più o meno distanziate e senza l’obbligo di esibire il documento richiesto agli altri.
Ristoranti, mense e hotel
Altra distinzione molto discussa a livello normativo, ma poco rilevante dal punto di vista scientifico, è quella tra i diversi luoghi dove le persone possono mangiare, stando al chiuso. Che si tratti della sala interna di una pizzeria, della sala ristorante di un hotel o dei tavoli della mensa aziendale, dal punto di vista del coronavirus Sars-Cov-2 non fa molta differenza e la logica vorrebbe che le regole fossero le stesse per tutti.
Se con il weekend di Ferragosto sembra essere stato chiarito (al netto delle questioni sindacali) che il servizio mensa di ristorazione aziendale è del tutto equiparabile a un ristorante, la differenza resta ancora nel caso degli hotel. In pratica, se un centinaio di clienti vogliono sedere all’interno di un ristorante devono mostrare il green pass, ma se quegli stessi clienti pernottano in uno stesso albergo e poi occupano la sala ristorante tutti assieme, allora la certificazione non è richiesta. Una misura che evidentemente nasce dalla volontà di incentivare il turismo e non colpire ulteriormente le strutture ricettive, ma che – va detto – dal punto di vista scientifico non è affatto coerente con tutto il resto.
Discutibile è anche il criterio della non obbligatorietà del green pass per chi nella ristorazione lavora. Camerieri, cuochi e addetti possono tenere sempre indosso la mascherina, certo, ma sono anche le persone che restano più a lungo negli ambienti condivisi con i clienti, proprio come vale per gli insegnanti a scuola o per gli operatori sanitari in ospedale.
Mezzi di trasporto a singhiozzo
Poco fondata dal punto di vista scientifico è anche la suddivisione tra i mezzi pubblici che richiedono il green pass e quelli per i quali non è necessario. Ad agosto nessun mezzo lo richiede, a settembre alcuni sì. Per i treni regionali no, per quelli ad alta velocità sì. Per le linee autobus urbane no, per quelle extraurbane sì. Per i traghetti sì, per le metropolitane no. Per gli aerei sì, per i tram no.
In questo caso il criterio è soprattutto legato alla praticità di eseguire i controlli più che fondato sul reale rischio di trasmettere il virus. Non si spiega altrimenti, infatti, come mai per gli assembramenti in metropolitana non sia richiesta alcuna certificazione, mentre per stare magari sul ponte all’aperto di un traghetto il green pass sia obbligatorio. O come mai nei notoriamente affollati treni dei pendolari non ci sia alcun vincolo, mentre l’imposizione del pass valga per chi occupa un più ordinato treno a lunga percorrenza che attraversa l’Italia.
Contraddizioni all’aperto
Forse più che in qualunque luogo chiuso, le contraddizioni del green pass emergono all’aria aperta. Con differenze che emergono palesi e raggiungono a volte i livelli del grottesco, giustificabili solo con il fatto che una certa attività preveda o meno un responsabile della sicurezza anti-Covid, o che si tratti o meno di un evento ufficiale.
Così per visitare un sito culturale esterno o seguire un evento culturale all’aperto (un concerto, una proiezione cinematografica, un festival…) occorrono green pass, mascherina e distanziamento, mentre non serve il green pass se si è seduti in un ristorante o in un bar all’aperto.
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Il green pass parte da un approccio scientifico ma per alcuni aspetti può essere perfezionato: dall’irrevocabilità per chi si ammala a regole diverse per attività analoghe
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