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Non c’è pace per la Gran Bretagna. Sono passati pochi mesi da quando il paese ha ufficialmente smesso di essere uno Stato membro dell’Unione europea con la fine della fase di transizione della Brexit. E leggendo le notizie che arrivano da Oltremanica ci sembra di respirare un’aria di tragedia più che di liberazione.

Questo periodo è stato un susseguirsi continuo di crisi economiche e sociali, che hanno interessato più o meno ogni aspetto della quotidianità delle persone e che di volta in volta hanno assunto sempre più le sembianze di un’apocalisse in corso. L’ultima in ordine cronologico è l’istantanea delle infinite code ai benzinai e degli scaffali vuoti ai supermercati, qualcosa che ci ha solleticato i vecchi ricordi dei primi giorni della pandemia Covid-19 ma che stavolta poggia su altre basi, quelle accidentate della Brexit appunto.

Un domino di criticità

Alcune pompe di benzina si sono ritrovate senza carburante, non perché il carburante non ci sia ma perché a causa del reticolo normativo che si è dato il governo di Londra ora che con l’Unione europea non vuole più averci a che fare. E mancano migliaia di autotrasportatori (almeno 100mila secondo l’associazione nazionale dei trasporti) che questo carburante, o le scorte alimentari per la grande distribuzione, li portavano lì dove i consumatori potevano fruirne.

Sono aumentati i costi dei trasporti, sono aumentati i tempi degli stessi a causa delle infinite procedure doganali per i prodotti che vengono dall’estero, è diminuita la manodopera locale a causa delle limitazioni che Boris Johnson ha messo ai lavoratori stranieri che un tempo dominavano la guida dei camion. Il risultato è che la logistica britannica è in ginocchio e con essa dunque tutto il sistema di commercio, anche di beni primari.

Come dicevamo, non si tratta di una crisi isolata. La mancanza del personale è una costante di questi mesi ed è alla base di problemi che hanno interessato più o meno ogni settore dell’economia inglese, dall’agricoltura ai servizi, passando per l’industria manifatturiera.

C’è stata la crisi della pesca, con i produttori locali che ora fanno molta più fatica a esportare in Europa il loro pescato per le difficoltà e le lungaggini doganali. La crisi del gas, con un’impennata dei prezzi ben superiore a quella del resto d’Europa che ha messo perfino a rischio la CO2 per le bibite gassate. La crisi dei polli, con scarsa manodopera per l’allevamento ma anche assenza di personale nella ristorazione che ha costretto molti locali e catene di fast food a chiudere. La crisi della chemioterapia, con ospedali come quello di Nottingham che hanno dovuto ridimensionare le cure a causa del poco personale sanitario disponibile. La crisi del sangue, con una penuria di provette dovuta a problemi nei trasporti e alla frontiera che hanno rallentato le analisi negli ospedali. La crisi più generale delle piccole e medie imprese, soffocate nelle loro attività di esportazione e consegne dal nuovo reticolo burocratico. La crisi della cultura, con il più complicato sistema di visti e permessi che ha allontanato da Londra molti addetti ai lavori. Dazi, burocrazia e limitazioni alla libera circolazione delle persone imposte dalla Brexit hanno insomma stravolto lo scenario della Gran Bretagna nel giro di pochi mesi.

Una Brexit sempre meno hard?

C’è certamente un aspetto legato alla pandemia che ha contribuito a mettere in ginocchio l’economia britannica, come è d’altronde per gli altri paesi europei e del mondo. Ma in questo caso specifico è impossibile non vedere lo zampino decisivo che sta avendo la Brexit e tutto quello che si è portata dietro, una sorta di comune denominatore più o meno di tutto ciò che sta andando storto nel paese. 

Il problema è che la Gran Bretagna oggi ha mancanze proprio su quelli che sono i pilastri su cui si reggeva la sua economia: la liberalizzazione dei trasporti e del commercio che eliminava l’ostacolo marittimo, l’ampia manodopera straniera che teneva in piedi tutto il reticolo economico-sociale. Non è un caso che oggi Boris Johnson stia scegliendo la via dei visti straordinari e dell’abbattimento temporaneo della burocrazia doganale, così da mettere una toppa a un problema che egli stesso ha creato, sconfessando però di fatto tutta la sua filosofia e quella su cui si regge la Brexit. 

Che il governo britannico si stia rimboccando le maniche per introdurre correttivi con cui raddrizzare queste crisi è comunque una buona notizia, perché dopo mesi a negare e sminuire gli effetti nefasti della Brexit suona come una sorta di ammissione di colpa, primo passo fondamentale per raddrizzare effettivamente il tiro.

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Crisi nei rifornimenti di benzina. Visti d’urgenza per colmare la manodopera che manca. Logistica ko. L’uscita di Londra dall’Unione europea svela tutte le sue conseguenze
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