“Ne resterà soltanto uno”. Così diceva Christopher Lambert in Highlander, sapendo di dover uccidere tutti gli altri immortali per potersi guadagnare l’umanità, mentre Arnold Schwarzenegger nei panni de L’Implacabile cercava di sopravvivere nell’equivalente televisivo di un’arena da gladiatori. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai film cult degli anni ’80, ma l’idea di un gioco letale in cui è in palio la vita dei contendenti non è mai passata di moda: lo dimostra il successo di Squid Game, la nuova serie tv coreana che in breve tempo ha appassionato i fan di tutto il mondo scalando le classifiche degli show più visti su Netflix.
Anche se è una serie nata e pensata per la tv, Squid Game sembra proprio uscito da un manga, e c’è una buona ragione. Proprio nei fumetti giapponesi, infatti, si è affermato definitivamente il genere dei death game, che nei decenni ha assunto varie forme: dai quiz show assassini ai battle royale, scontri all’ultimo sangue che ammettono un unico sopravvissuto vincitore.
Se si considerano la creatività e il genere delle prove, il manga che si avvicina di più a Squid Game è probabilmente As the gods will di Muneyuki Kaneshiro e Akeji Fujimura (edito in Italia da Star Comics), ma la premessa e lo svolgimento sono ancor più assurdi e grotteschi. Shun Takahata è uno studente del liceo appassionato di calcio. Un giorno, la testa del suo professore esplode, lasciando il posto a una bambola daruma, raffigurante una faccia stilizzata. La strana apparizione dà il via a un gioco di un, due, tre, stella (vi ricorda qualcosa?) uccidendo chiunque sia sorpreso a muoversi. Shun troverà il modo di vincere, ma a che prezzo? Sarà solo l’inizio di una serie di prove folli, basate spesso sui classici giochi per bambini.
Un altro manga che può essere considerato un diretto antesignano di Squid Game è Alice in Borderlands, di Haro Asô. Arisu e i suoi amici, Chota e Karube, sono dei giovani disillusi e annoiati, con ben pochi talenti e nessuna fiducia nel futuro. Tutto cambia quando un lampo di luce li trasporta in una sorta di Tokyo alternativa, in cui per sopravvivere è indispensabile superare una serie di giochi il cui premio dalla complessità e crudeltà crescenti. Il fumetto è inedito in Italia, almeno per ora, ma è possibile consolarsi guardando l’omonima serie tv live action, sempre su Netflix.
Uno dei pilastri del genere dedicato ai combattimenti all’ultimo sangue con un pizzico di survivalism è Battle Royale, manga del 2000 tratto dall’omonimo romanzo di Koushun Takami e disegnato da Masayuki Taguchi (edito in Italia da Panini Comics). In un futuro prossimo in cui il Giappone è stato sostituito da una distopica repubblica della Grande Asia, ogni anno viene estratta a sorte una classe di terza media. I giovani studenti sono prelevati dal governo, esiliati in un luogo sperduto, controllati tramite un collare esplosivo, e costretti a uccidersi a vicenda utilizzando armi distribuite casualmente. Nei 15 volumi di cui è composto Battle Royale seguiamo le vicende di una di queste classi, da subito divisa in due gruppi: i ribelli, che cercano un modo per sfuggire al gioco omicida, e gli assassini, che si piegano al sistema escogitato dal governo per stabilire chi di loro sia degno di sopravvivere.
Il successo del manga è da ricercarsi non tanto nella sua storia violenta e nelle scene efferate (certo non una novità scandalosa per i lettori giapponesi, neanche vent’anni fa), quanto nella sua caratterizzazione dei personaggi, che riflettono tutti gli stereotipi degli studenti giapponesi (il bravo ragazzo, il leader, l’otaku, il teppista, quello che vuole primeggiare in tutto…), e nella sua esplicita critica della società nipponica, dove la scuola diventa un tritacarne che premia la competizione e il primeggiare a ogni costo più che la collaborazione e lo spirito di squadra.
Proprio l’intento di critica sociale accomuna molti manga e fumetti dedicati a giochi e competizioni letali. La spettacolarizzazione della violenza diventa una critica tutt’altro che velata ai media o alla società contemporanei – con esiti ironici, se si considera che il successo del genere si fonda in larga parte sul fascino morboso di vedere individui comuni alle prese con situazioni scioccanti e sanguinarie.
C’è poi una nuova generazione di manga che offrono un taglio più moderno e incentrato sui trend social e mobile. È il caso di Darwin’s Game di Flipflops (edizioni Panini): i partecipanti a un gioco su smartphone ottengono dei “sigilli”, poteri straordinari da usare per sfidarsi in duelli letali uno contro uno o in clan. L’obiettivo è accumulare punti (convertibili in soldi) sconfiggendo gli avversari, ma chi scende a zero dopo troppe sconfitte è destinato alla morte.
Altrettanto moderno è il “gioco” di Dead Tube, manga di Mikoto Yamaguchi e Tōta Kitakawa, che riposiziona l’intento critico per aggiornarlo ai tempi dei social (edizioni J-Pop). Un sito web permette agli utenti di caricare video dai contenuti violenti ed espliciti. Ogni settimana, chi accumula più visualizzazioni ha l’opportunità di vincere 10 milioni di yen. Ma chi perde è costretto ad assumersi la responsabilità, il costo e la pena di qualsiasi danno o crimine compiuto dal vincitore. Così, quando il timido studente Machiya e il suo club scolastico di cinefili si ritrovano coinvolti nel concorso, si rendono ben presto conto che l’escalation verso la violenza e la perversione sono inevitabili. critica si concentra sulla ricerca della fama, a tutti i costi, sui social network.
Sui pericoli della tecnologia condivisa punta l’indice anche Real Account, manga di Okushou e Shizumu Watanabe (edizioni Star Comics). Una piattaforma social di enorme successo “risucchia” le menti degli utenti con più follower, intrappolandole in un mondo virtuale. Qui ha inizio una serie di giochi letali con due regole inflessibili: chi muore nella app muore anche nel mondo reale; e, con lui o lei, muoiono anche tutti i relativi follower ancora liberi. Il primo gioco? Agli utenti nel mondo esterno è garantita una chance di abbandonare i compagni intrappolati nella realtà virtuale, salvandosi da qualsiasi conseguenza futura, ma sapendo anche che chi scende a zero follower viene ucciso immediatamente.
Se manga e anime svolgono la parte del leone, anche nel panorama del fumetto occidentale il genere ha fatto capolino in più di un’occasione.
Nell’universo dei supereroi Marvel, ci sono le saghe Contest of Champions e Avengers Arena, dove le minacce cosmiche sono poco più che scuse per permettere ai lettori di vedere i propri eroi darsele di santa ragione, per determinare il più forte; e ovviamente gli immancabili luna-park assassini di Arcade e Mojo, avversari degli X-Men che condividono un gusto per lo show-business omicida. Mentre tra i supereroi Dc Comics è impossibile non citare i giochi letali con cui l’Enigmista continua a sfidare Batman, o la saga Joker’s Asylum in cui il clown più pazzo di Gotham City organizza un quiz omicida per spingere i telespettatori a confrontarsi con le proprie curiosità più oscure. In tutti i casi, però, si tratta di storie davvero all’acqua di rose se confrontate con le loro controparti giapponesi.
Tra manga e fumetti, tra giochi creativamente sanguinari e combattimenti all’ultimo sangue, gli appassionati di death game hanno solo l’imbarazzo della scelta: ce n’è da leggere almeno sino all’arrivo di una seconda stagione di Squid Game.
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I migliori titoli dedicati ai death game, tra giochi omicidi, social network assassini ed eliminazioni all’ultimo sangue
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